Parere concernente il diritto di accesso a servizi bancari e più in generale al credito
Premessa
La questione posta alla nostra attenzione concerne il caso derivante dal comportamento di alcuni istituti bancari tendente a negare o limitare la possibilità di aprire rapporti, anche di semplice conto corrente o deposito senza apertura di credito, (con l’ovvia conseguenza di impedire l’accesso a servizi bancari di pagamento con assegni, bonifici, RID o altro), a soggetti, persone fisiche o giuridiche, che risultano a sofferenza sul sistema o addirittura che sono semplicemente garanti di posizioni a sofferenza.
In un caso si è riscontrato addirittura una tendenza di “moral suasion” o pressione avente quale fine la chiusura di un rapporto attivo, nei confronti di una società nella cui compagine sociale figurerebbe un socio con le caratteristiche di cui sopra.
Poiché non risulta al riguardo una normativa di riferimento, è lecito pensare che il comportamento collettivo sia determinato da intese tra gli intermediari o regolamenti interni, della cui legittimità si deve dubitare, sia in relazione al dettato normativo astrattamente applicabile, sia in virtù dei principi che regolano la materia della tutela del mercato e della concorrenza.
In sintesi i problemi che si pongono possono essere così riassunti:
- Se nella fattispecie descritta può ipotizzarsi astrattamente un obbligo a contrarre, sia con riferimento all’accesso al credito, che nei limiti dell’accesso al servizio bancario di base, in analogia con le previsioni delle norme di accesso a tali servizi da parte del consumatore.
- Se possa essere ritenuta applicabile, e in che limiti, la Direttiva 2014/92/UE per il contrasto alla discriminazione nell’accesso ai servizi bancari e finanziari.
- Se i comportamenti ipotizzati possano ledere diritti e interessi tutelati dalle norme antitrust
- Quali strumenti normativi o prassi applicative possano essere individuati a tutela del soggetto richiedente.
Pur trattandosi di tema ampiamente discusso, non risulta possibile configurare nel nostro ordinamento un obbligo e/o dovere di concessione di credito per le banche e per gli intermediari finanziari, sia pure con la corretta precisazione che “questa conclusione può valere solo per quanto concerne il momento dell’instaurazione del rapporto creditizio”.
La previsione di un obbligo di far credito per i finanziamenti agevolati e/o convenzionati con contributo dello Stato e per le operazioni “particolari” di credito su pegno, non potrebbe far ritenere sussistente un generale obbligo di concessione di credito, in mancanza di un’esplicita norma di legge che lo preveda.
Escludere l’esistenza di un generale obbligo a contrarre, non significa tuttavia riconoscere alla banca la possibilità di rifiutare, anche ingiustificatamente, richieste di concessione di credito da parte dei terzi in genere (consumatori, imprese, professionisti), in particolare in quelle ipotesi nelle quali il rifiuto si dimostra gravemente e ingiustamente lesivo della posizione del richiedente.
Dell’obbligo di far credito è stata evidenziata la sua estraneità all’impresa bancaria, ma come si è visto “questa conclusione deve stare ferma nella sua assolutezza solo per quanto concerne il momento dell’instaurazione del rapporto creditizio”.
Per sostenere la sussistenza di una limitazione autoritaria della libertà contrattuale delle banche dovrebbe richiamarsi il dettato degli artt. 2597 e 1679 c.c. per estenderne l’applicazione ad un’area nella quale la ratio del pubblico servizio può essere intesa in senso largo. Una tale estensione, può essere proposta per le imprese che agiscono in situazione di monopolio di fatto, anche di carattere sostanziale. Anche se nel caso delle banche potrebbe parlarsi di “oligopoli” e non di monopolio di fatto, tuttavia l’accertamento della presenza di una univoca prassi o peggio, di disposizioni regolamentari anche interne, seppure avallate o tollerate da organismi di controllo, potrebbe essere individuata quale illecita attività limitatrice della concorrenza e della libertà del mercato.
Escludere l’esistenza di un generale obbligo a contrarre, non significa quindi riconoscere alla banca la possibilità di rifiutare, anche ingiustificatamente, richieste di contratti da parte di terzi, in particolare in quelle ipotesi nelle quali il rifiuto si dimostra gravemente e ingiustamente lesivo della posizione del richiedente.
Il problema potrebbe trovare una soddisfacente soluzione non solo attraverso il richiamo dei generali principi della buona fede e dell’abuso del diritto, ma anche attraverso la valorizzazione delle riferite norme “interne” di comportamento dettate alle banche, anche a tutela di interessi meritevoli, non sufficientemente protetti dal generale principio del neminem laedere.
In ordine all’obbligo a contrarre, in un’ottica sovranazionale di analisi, direttamente connessa al governo del credito e al controllo di sistema demandato alla BCE, deve rilevarsi che in Francia tale obbligo si estende anche all’apertura di un conto bancario. Chiunque ha diritto all’apertura di un compte de dépot nello stabilimento di credito a sua scelta o presso i servizi finanziari della Posta e del Trésor publique (art. 312-1 code monetaire et financier), pur presentando una dichiarazione sul suo onore che non ha altri conti e, in caso di rifiuto, rivolgendosi alla Banca di Francia per l’indicazione dell’ istituto di credito.
In ordine alla possibile interpretazione anche evolutiva, tenuto conto della applicabilità delle norme europee, va segnalata la direttiva 2014/92/UE in cui, nelle premesse (35) viene esplicitamente affermato:
E’ opportuno evitare di discriminare i consumatori che soggiornano legalmente nell’Unione a motivo della cittadinanza o del luogo di residenza o per qualsiasi altro motivo di cui all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (ndr. in materia di non discriminazione) in relazione alla richiesta di aprire un conto di pagamento o all’accesso al conto all’interno dell’Unione. Inoltre, è opportuno che gli Stati membri garantiscano l’accesso ai conti di pagamento con caratteristiche di base a prescindere dalle condizioni finanziarie dei consumatori, ad esempio il loro status professionale, il livello reddituale, la solvibilità o il fallimento.
Il richiamo esplicito a elementi quali la solvibilità o il fallimento induce a ritenere che la normativa superi il limite del diritto all’accesso al conto di base nei rapporti con i consumatori, come previsto dalle norme regolamentari in vigore e dai relativi accordi e convenzioni (ad es. convenzione 31.05.2014 MEF – ABI – Banca d’Italia), essendo destinata alla generalità dei contraenti.
Allo stato attuale non risulta in modo univoco che tale indirizzo sia supportato né dall’ABF, né dalla Cassazione, che, al contrario, ritengono che la banca sia soggetto di stampo privatistico e che quindi nell’ambito della propria libertà imprenditoriale possa negoziare con chi vuole, con l’unico limite del rispetto del principio di buona fede nei rapporti contrattuali.
I principi dell’ordinamento sopra descritti non consentono e non consentiranno in ogni caso di difendere e tutelare pratiche scorrette e illegittime di limitazione della possibilità di accesso a servizi regolamentati quali quelli del credito e finanziari. Ne è riprova la direttiva citata che, pur risultando non ancora ufficialmente recepita dall’ordinamento italiano, deve ritenersi invocabile soprattutto in considerazione della delega delle funzioni di governo e controllo del credito in capo alle istituzioni comunitarie e alla BCE.
Da segnalare inoltre l’impulso dato a livello europeo in materia di legislazione antitrust e relativa repressione di comportamenti lesivi della concorrenza e del mercato.
Ulteriore argomento a favore di una soluzione positiva al problema, sia che si attui in sede normativa e regolamentare, sia che discenda da un intervento di carattere giudiziale, viene dalla possibilità di estensione dell’applicabilità delle norme in materia di diritto al conto corrente di base: in Italia esiste il diritto al conto corrente di base riservato.
Disporre di un conto corrente sta sempre di più diventando un diritto, soprattutto perché la ratio dell’istituto è proprio quella di permettere a tutti di fare parte del consesso economico della collettività, eliminando in questo modo discriminazioni rappresentate dalla impossibilità di accedere ad un servizio ormai indispensabile non solo nei rapporti fra privati ma anche fra il cittadino e le istituzioni.
Asola il 11.09.2015
(avv. Giorgio Pistoni)